Manuel Beltrami, il Maradona del tamburello

Il formidabile fondocampista trentino ha scritto la storia con il Callianetto del patron Fassio

Parlare di tamburello con Manuel Beltrami quando tutto lo sport è fermo fa bene al cuore. Dopo aver trascorso quasi diciotto anni ad Asti, ora abita a pochi chilometri da Solferino, in provincia di Mantova. Lì si allena da solo alla sera in questi giorni senza tamburello, quando la preoccupazione per la situazione sanitaria italiana è più forte di tutto: «Negli ultimi giorni le cose sono cambiate molto, la gente non esce, cominciano ad arrivare le prime notizie di ammalati nei paesi vicini». Mentre gli altri sport si interrompono, la stagione di tamburello non è nemmeno partita. Avrebbe dovuto iniziare il 22 marzo, ma tutto è rimandato almeno a dopo il 3 aprile.

Ripercorrere la storia del campione simbolo degli anni Duemila di uno sport antico come il tamburello è un modo piacevole di mettere da parte per un po’ l’ansia e l’incertezza di questi giorni. Tornano alla mente ricordi sopiti degli anni di Callianetto, storie note si illuminano di una luce nuova.    

Gli astigiani hanno scoperto Beltrami quando aveva 18 anni, Supercoppa 1996 a Montechiaro. Ma Manuel quando ha capito di essere arrivato ai massimi livelli?

Quella partita ha segnato qualcosa di nuovo anche per me. Ero al secondo anno di Serie A, con i miei compagni del Tuenno affrontavamo il Castelferro di Bonanate, Petroselli e Dellavalle, la squadra più forte. Partita sospesa 12-12, ripresa il giorno dopo e vinta da noi. Mi nominarono miglior giocatore e qualcuno fece una battuta a Beppe per il fatto che mi avessero premiato sul campo del suo paese. Prese la parola per farmi i complimenti. Ricevere il plauso di un campione e del pubblico astigiano ha avuto un significato speciale.   

Perché?

Per me nel tamburello l’astigiano equivale al Brasile nel calcio. Da trentino l’ho sempre visto come la culla della tecnica e come un posto in cui i giocatori crescono secondo una scuola particolare. Negli anni che ho poi trascorso a Callianetto con Andrea Petroselli, Riccardo Dellavalle e Aristide Cassullo ho imparato come il tamburello possa essere un compagno di vita.

A Callianetto hai stretto un legame speciale con il presidente Alberto Fassio, come vi eravate conosciuti?

È stato a Sabbionara, in Trentino, dopo una partita contro la squadra di mio padre. Callianetto faceva ancora la A2 e già lì Alberto mi chiese di venire a giocare ad Asti. Restò contrariato dalla mia risposta negativa, ma due anni dopo me lo propose di nuovo e dissi di sì. Doveva però fare la squadra che dicevo io e gli posi come condizione di giocare con Petroselli e Dellavalle. Mi accontentò e così nacque la squadra più forte in cui abbia mai militato.

Come siete riusciti a raggiungere un livello così alto?

Per i primi anni abbiamo avuto a disposizione una struttura incredibile. L’intero staff dell’Hasta Fisio, il dietologo della Juventus Calabrese, tre-quattro allenamenti a settimana. Abbiamo sviluppato una continuità e una precisione tecnica tali che quando uno di noi colpiva la pallina l’altro sapeva esattamente come giocare quella successiva.

In undici anni a Callianetto hai vinto tutto, ma come mai scenari e compagni di squadra sono cambiati più volte?

Alberto ha cominciato a cercare qualcosa in più della vittoria, amava la sfida. Nel 2008 la Federazione decise di adottare il sistema dei playoff solo per avere più chance di non vederci vincere ancora, ma Alberto non obiettò più di tanto. Voleva provare a far entrare il tamburello a Torino e si servì di un contatto con la Fiat. L’anno dopo decise di cambiare Andrea e Riccardo con Yohan Pierron e Samuel Valle, voleva rimettere tutto in discussione. Con loro e Stefania Mogliotti abbiamo lavorato tanto e siamo arrivati di nuovo a ottimi livelli.  

Come mai nel 2013 è poi finito tutto?

La crisi immobiliare seguita al 2008 si è fatta sentire. Alberto aveva una passione sfrenata e non ha mai voluto che nessun altro contribuisse. Ridimensionarsi non è mai stata un’opzione, o così o niente. Spesso per lui le cose erano o bianche o nere, ma per questo sport un uomo come lui è stato una fortuna. Quando sono andato a giocare a Castellaro mi ero fatto promettere che sarebbe poi venuto a vedermi ma non lo ha più fatto. Ricordo sempre con affetto la mamma Luigina e la sua famiglia.

Dopo gli anni a Castellaro sei passato al Solferino, che ambienti sono?

Solferino è una delle piazze più frizzanti del campionato. Come a Castellaro ho trovato una realtà con grandi potenzialità e dirigenti molto in gamba. 

Quest’anno al tuo fianco hai un compagno del passato come Yohan Pierron e il giovane mezzovolo Luca Marchidan. Prime impressioni? 

Yohan lo conosciamo. È un gran professionista, metodico, porta con lui una motivazione tanto forte da averlo spinto a lasciare la Francia. Il suo esempio ha alzato l’asticella della dedizione nel tamburello. Luca è pacato, ha passione, ascolta tanto e mi piace la mentalità che ha. Deve migliorare la velocità di piedi, ma ha un’ottima mano e credo diventerà fortissimo. Anzi, mi auguro che accada davvero presto.

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