"Lavoriamo perché il tamburello non finisca in una riserva indiana"

Una fase della finale del l’ultimo torneo a muro a Vignale, con il titolo vinto dal Grazzano contro il Montemagno (in primo piano) 

EDOARDO FACCHETTI. Il presidente della Federazione: “Si guarda troppo alle regole e poco alla sostanza. Ma è necessario cambiare per sopravvivere”.

Questa disciplina ha scarso appeal tra i giovani. Dobbiamo avere ricambi adeguati. Dal “muro” all’indoor: tante facce diverse e uguali di uno sport che deve adeguarsi ai tempi di oggi. 

È reduce da una vacanza in Kenia («non solo turismo, ma anche e soprattutto un po' di volontariato in quell'Africa che vuole affrancarsi da una povertà endemica»): eppure, anche nei giorni delle Festività, lontano da casa, Edoardo Facchetti, 60 anni, assicuratore bresciano con una parentela calcistica «importante» (è cugino del mitico Giacinto, campionissimo dell'Inter e della Nazionale) e presidente della Federazione italiana tamburello, non ha mai smesso di occuparsi del «suo» sport.
Fachetti, lei è alla guida della Federazione da tre anni. In precedenza è stato tecnico e giocatore di alto livello (15 anni in A, con uno scudetto in A2). Il tamburello è cambiato molto, in questo quasi mezzo secolo che lei ha attraversato da atleta e appassionato...
«Lo so dove vuole arrivare: il nostro gioco ha perso appeal e praticanti e anche tanti tifosi. Vede, noi stiamo vivendo una fase cruciale della nostra storia ultracentenaria: da un lato gli intenditori, quelli che hanno vissuto l'epopea del tamburello ruggente, ci chiedono di vedere spettacoli di alto livello e, dall'altro, dobbiamo fare i conti con una realtà mutata. Mancano i giovani e quelli che si avvicinano da spettatori, per semplice curiosità, al nostro gioco, dopo un quarto d'ora si stufano. Credo, per sentito dire, che sia così anche per altre discipline sferistiche. E allora, con i miei collaboratori, ci siamo detti: o si cambia o si muore».
Che cosa significa?
«Non vorrei che il tamburello finisse confinato in una sorta di riserva indiana, dove si consumano gli ultimi fuochi di una saga straordinaria. Il nostro sport, come quello cugino della pallapugno, per esempio, merita di avere la dignità che tutti gli riconoscono per tradizione, nobiltà atletica e gesto tecnico».
E allora che fare?
«Il problema è proprio questo: mi pare che ci si ostini a dissertare di regole, di squadre da iscrivere alla A e via discorrendo, quando invece bisognerebbe guardare ad orizzonti più ampi. Mi sembra che troppi curino l'orticello di casa, senza rendersi conto che andando avanti di questo passo si rischia una sorta di desertificazione sportiva. Che cosa ce ne facciamo di regole e campionati se al vertice abbiamo giocatori di 40-50 anni e mancano i ricambi?».
La vostra Federazione ha circa 9 mila tesserati, 180 società (distribuite in gran parte tra Verona, Trento, Mantova, Brescia, Bergamo) e il resto, tra Astigiano e Alessandrino. In Piemonte il prossimo anno ci sarà una sola società di A, il Cremolino, una di B (Rilate-Chiusano), 6 sei di C e una decina di D. Numeri certo non confortanti...
«Intanto ci è spiaciuto che il Chiusano non abbia continuato a coltivare il progetto che io avevo definito " a chilometri zero" della A, con giovani fatti in casa e che la scorsa stagione ha dato eccellenti frutti anche in fatto di crescita del vivaio locale e di presenze (250 spettatori a partita). Ovviamente non spetta a me entrare nel merito delle singole scelte, ma resta il rammarico per questa decisione di scendere di categoria. Detto questo mancano i rincalzi e troppi club (parlo in generale) non fanno attività giovanile. E questo vale anche per il torneo a muro»,
Ecco, il «Muro». Una splendida eccezione»: tifo, interesse, rivalità di campanile. Non sarebbe un modello esportabile anche fuori dai confini monferrini?
«Il Muro è unico. Può essere migliorato, abbellito, reso ancora più appassionante. Ma non è replicabile, anche perché negli altri territori non esiste più la rivalità dei paesi. E' tutto finito e dobbiamo prenderne atto. E' cambiato il mondo, non solo sportivo».
«Lavorando, come stiamo facendo, anche nell'indoor (dal Piemonte al Lazio, da Udine a Firenze), con la scuola e cercando di portare poi i ragazzi all'open, magari su campi delle stesse dimensioni di quelli al coperto, tre contro tre. Un gioco che piace a tutti, per velocità e modernità. Un po' come il fenomeno paddle, che pure beneficia di sovvenzioni (per noi impensabili) dalla Federazione tennis. Perché, ricordiamoci, la nostra disciplina rischia di soffocare anche economicamente, stretta com'è tra le pieghe di gestioni dello sport divise tra Coni, Sport e Salute, Federazioni «giganti» (vedi il calcio) e altro. Eppure noi, con fondi sempre più ridotti, siamo addirittura in utile grazie a sponsorizzazioni importanti (Ferrero, Decathlon, Macron). Ma dobbiamo crescere anche mediaticamente, come ha insegnato l'esperimento molto positivo della trasmissione settimanale tv su SportItalia (75 mila visualizzazioni in media a puntata). In sostanza: dobbiamo cambiare. Se vogliamo avere un futuro».

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