Addio a Pentore il tamburellista che giocava col cielo

lutto a Castell'Alfero.
nella foto del ragazzino Paolo Marca un primo piano di Armando Pentore quando il Castell'Alfero vinse il girone Piemontese a cui seguì lo scudetto nel 1970
In morte del più grande battitore del tamburello. Ora che Armando Pentore, da Castell'Alfero, ha lasciato lo sferisterio della vita, si può anche abusare di una di quelle affermazioni che non hanno valore statistico, destinate come sono solo a far discutere ed essere discusse. Ma nell'epoca in cui si celebrano i Federer e i Nadal del tennis come i più forti di ogni epoca (dimenticando i Laver e i Rosewall), i Marc Marquez e i Valentino Rossi come icone della moto (omettendo magari di citare Agostini, 15 volte sul tetto del mondo) e quando persino un certo Coppi esce battuto da qualche ciclista «moderno» negli immancabili sondaggi su chi sia stato il "più grande" , allora ci sia concesso almeno il vezzo di celebrare questo favoloso tamburellista Anni '60-70. Lui cresciuto in un Castell'Alfero che avrebbe cambiato i parametri di questo sport, dominando prima a «muro» e poi portando i colori azzurro cielo del paese nell'Olimpo del tamburello. Pentore è stato, in campo e nella vita, assai schivo e assai meno citato di tanti altri suoi rivali ed epigoni.
Eppure, in quella meravigliosa fucina del «Comandante Caldera» lui fu una delle gemme più preziose, spuntate insieme ad altri talenti straordinari come quello di Franco Calosso. E dirigenti illuminati: da Sandro Vigna (il patron della squadra che lasciò una scia indelebile nel tamburello giocato con la «palla piccola nera», poi discutibilmente cancellata dalla Federazione per manifesta superiorità dei celesti astigiani sul campo da 100 metri) a Pierino Tirone, il segaligno segretario del liceo scientifico Vercelli che aveva la passione per il tambass cucita come una seconda pelle. Fino a Renzo Dapavo, il «medico di tutti» che curava il fisico e anche un poco le anime di quei giocatori straordinari: l'ineguagliabile talento di Cerot, la meravigliosa leggerezza di Uva, la potenza di Riva, l'abilità sotto il cordino di Casalone e poi di Felice Negro, anch'egli prematuramente già «andato avanti».
In quel «Wunderteam» Pentore portava in dote il dna alferese, battendo la palla più in alto e più lontano di tutti: giocava con il cielo colorato come la sua maglia e con le rondini. Era cresciuto a muro e poi sbocciato anche nel«libero». Era riservato e umile. «L'unico dei campioni che più avanti accettò di giocare con noi ragazzi in una squadra del paese» ricorda commosso Marco Dapavo, ora stimatissimo medico come il fratello Giancarlo e il padre Renzo: una famiglia unita anche nel segno del tambass.
Addio Pentore, il campione che trascinava un «basto» di tamburelli nei cambi campo, il sudore che gli colava sugli occhiali: quando «batteva» sembrava scagliasse quella pallina nell'infinito. E che vola ancora. Verso l'ignoto.
 

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