La piccola Moncalvo si gioca 20 milioni di euro

Il sindaco Aldo Fara: “Si rovinano poi non hanno soldi per le bollette”. Nel 1945 era l'unica sede italiana di un casinò

E’ considerata da molti la più piccola città d’Italia e per chi si occupa di storia del gioco d’azzardo è un caso interessante per esser stata per quasi otto mesi, nel 1945, l’unica sede italiana di un casinò. Da un secolo e mezzo il vizio del gioco corre nelle vene di questa cittadina di neanche 3mila abitanti che nel 2016 aveva quattro sale da slot, ora ridotte a due e puntate in aumento. Giocate e scommesse a Moncalvo sono un fiume carsico che riaffiora di tanto in tanto emettendo onde decisamente forti. 

Gli ultimi dati
L’ultima, emersa dalle statistiche del 2016 sugli incassi delle slot, è argomento di discussione in Comune perchè 3.165 euro a testa, poppanti e novantenni compresi, danno da pensare confermando le posizioni apicali raggiunte a Moncalvo dall’azzardo. Se poi si aggiungono gli altri denari buttati al vento tra giocate on line, Gratta e vinci, Lotto, Super Enalotto e quant’altro la cifra è da brivido. «Tutto compreso supereremmo i 20 milioni di euro, ma limitandoci ai soli dati certi, sono stati giocati nelle 55 slot, in un solo anno, 9 milioni e 460 mila euro - precisa l’assessore al Bilancio Andrea Monti con laurea in Economia e Commercio- Purtroppo siamo ai vertici anche per l’incasso di ogni singola slot (172 mila euro contro i 120 mila di media nazionale) e dobbiamo considerare che i soldi sprecati alle slot sono quattro volte le entrate ordinarie del Comune».

Il commento del sindaco
Anche il sindaco Aldo Fara non cela preoccupazioni: «Voglio sperare che molti giocatori vengano da fuori, ma di certo c’è molta gente che si rovina e poi viene da me a lamentarsi che non può pagare le bollette». Su tutto il fronte sono pochi i Comuni Italiani che superano i 3165 euro pro capite di Moncalvo: Milano 1051 euro, Napoli 546 euro, Firenze 826 e, per restare nel territorio di riferimento, primo posto assoluto in provincia davanti ad Asti 1429 euro e Canelli a 1489 euro.

Un po’ di storia
La febbre del gioco scoppiò a metà Ottocento con le scommesse sulle partite di pallone a bracciale nello sferisterio ricavato dal confinante castello Gonzaga. Scommesse alte anche durante la prima Guerra mondiale e poi al termine della Seconda, quanto la Questura di Asti intervenne a debellare le «traverse» sulle partite di tamburello. Il giorno dopo la Liberazione, nel lussuoso palazzo Manacorda, eccellente esempio di tardo barocco piemontese, il conte Gabriele Cotta, comandante partigiano della VII Divisione autonoma «Monferrato» di ispirazione monarchica, aprì un casinò: due sale con una roulette e tavoli da chemin del fer che richiamavano centinaia di persone a sera da Bologna in su. Tra il personale, un direttore generale trasferitosi da Milano assieme alla famiglia e a tre croupier. Security garantita da tre partigiani con pistola alla cintola ben in vista. Mai un incidente, se non a dicembre la minaccia di un giocatore di suicidarsi che fece accorre i poliziotti e chiudere la sala da gioco, fino a quel momento protetta dalle altolocate referenze del conte. Finita a dicembre dello stesso anno l’esperienza a Moncalvo, il nobiluomo contattò De Gasperi, che mal vedeva le case da gioco, e sfruttò l’esperienza acquisita nella cittadina gonzaghesca per riaprire il 29 marzo 1947 il casinò di Saint Vincent, di cui fu a lungo direttore generale. Nel casinò di Moncalvo, visti i tempi e il timore di esporsi, nessun moncalvese mise mai piede. Chi voleva giocare andava a Saint Vincent. Il conte assunse due suoi uomini alla roulette, è trovò un lavoro in Vallèe a molti compagni d’arme. Ma ad una condizione: che non mettessero mai piede nel casinò.

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