Massimo Berruti: "Sono nato con il balun in mano ma poi sono arrivati i pennelli"

MASSIMO BERRUTI SEI VOLTE CAMPIONE ITALIANO DI PALLAPUGNO ED ECCELLENTE PITTORE
"SONO NATO CON IL BALUN IN MANO MA POI SONO ARRIVATI I PENNELLI"
Dice di essere nato con il «balun» (pallone) in mano, in quanto suo padre già praticava alla grande lo sport del pallone elastico, ora denominato pallapugno. Ma a un certo punto tra le mani si è trovato anche pennelli e colori. Coniugando sport e arte, è diventato sei volte campione italiano di pallapugno e un eccellente pittore, con all'attivo numerose personali in Italia e all'estero. Stiamo parlando di Massimo Berruti, nato a Rocchetta Palafea 73 anni fa, ma che da 58 abita e lavora a Canelli. È sposato con Francesca Marmo e ha un figlio, Dario, 41 anni. I suoi interessi culturali spaziano in un vasto raggio che comprende psicanalisi, astronomia, filosofia orientale, storia dell'arte, letteratura e cinema. Possiede 2.500 libri di fantascienza. Oltre ai lavori con l'aerografo realizza composizioni e grandi vetrate a colori, con la tecnica della legatura «tiffany».
Lei si ispira alla filosofia cinese del Tao. Questa concezione le è di aiuto?
«Tantissimo. Nel bene e nelle difficoltà. Ho avuto molti infortuni durante la carriera di pallonista e sono guarito grazie alle cure mediche. Ma per diventare come prima, o addirittura meglio, occorre essere preparati mentalmente. Il Tao insegna a raggiungere la meta mediante un percorso a tappe intermedie che richiede pazienza e riflessione».
Quando ha cominciato a giocare a pallapugno?
«Da bambino. A Rocchetta Palafea, dove sono nato, giocavano tutti. Mio padre militava in serie A e un mio zio in B. Il mio sogno era diventare come loro, gareggiare negli sferisteri dove il pubblico incita i loro beniamini».
Nel momento in cui si trovava sulla cresta dell'onda e stava per vincere il quarto titolo italiano cosa è successo?
«Quell'anno ero imbattuto. Mi mancava una partita per vincere il quarto titolo italiano di serie A. Durante un allenamento svenni. All'ospedale i medici mi diagnosticarono una trombosi al braccio destro. Tra convalescenza e riabilitazione rimasi fermo cinque mesi».
Quando ha ricominciato, quanti scudetti ha vinto?
«Avevo rischiato di morire o perdere il braccio, ma le cose fortunatamente andarono per il meglio. Dopo ho ancora vinto tre scudetti. Non fu un miracolo: la mia cartella clinica divenne oggetto di un convegno medico a New York».
Massimo Berruti e Felice Bertola, due miti, i Coppi e Bartali del «balun». Quando ha incontrato per la prima volta il suo storico avversario?
«Bertola ha quattro anni più di me. Quando lo incontrai per la prima volta sul campo da gioco io ne avevo diciotto. Io giocavo per la squadra Cento Torri Alba. Non ebbi alcun timore reverenziale, anche se lui aveva all'attivo già quattro scudetti. Tanto che quella partita la vincemmo noi».
Un dualismo che faceva impazzire il pubblico?
«Devo dire che il pubblico nel "balun" ha un ruolo determinante. Lo considero la terza squadra in campo. Negli sferisteri a volte c'erano anche 5 mila spettatori. Ricordo l'emozione della prima volta al Mermet di Alba, il tempio della pallapugno».
Cultura e tradizione?
«La pallapugno è uno sport molto antico, fa parte della cultura e della tradizione perché la gente di Langa e dell'entroterra ligure vi si identificava, nasceva con questo istinto. Questo sport faceva parte della quotidianità. Non passava giorno che dopo il lavoro giovani e meno giovani si radunassero in piazza per sfidarsi. Parlo di quando non c'era la tv e la vita era più serena».
La sua prossima mostra?
«S'intitola "Giocare la vita", sarà inaugurata a inizio giugno al Castello di Monastero Bormida. È una grande opportunità, perché a Monastero ogni anno organizzano avvenimenti culturali di alto livello. Ne vado orgoglioso».
Ha cominciato a fare arte che era giovanissimo. In che modo si è formato?
«Ho frequentato il liceo artistico a Cuneo e poi l'Accademia Albertina a Torino, dove tra gli insegnanti ho avuto Francesco Menzio e Enrico Paulucci, pittori che hanno fatto parte del gruppo "I Sei di Torino". Ho conosciuto anche Piero Ruggeri».
Dalla Pop Art è passato all'aerografo. Perché?
«Quando ho scoperto le potenzialità di questo strumento ne sono rimasto affascinato. Permette di creare sfumature incredibili».
Come definisce la sua pittura?
«Qualcuno parla di iperrealismo, ma non è così. Non entro nei particolari dei soggetti, anche se voglio dare l'impressione di un'immagine fotografica. Ci metto l'essenziale, lasciando a chi guarda il compito di comprenderne a fondo il significato».
Cosa preferisce ritrarre?
«La figura femminile, forse perché da ragazzino ero molto timido. Mi affascina perché, a parte l'aspetto erotico che è importante, è un capolavoro, colpisce l'immaginario dell'esteta. In questa "metà del cielo" ci vedo il mondo. La donna ha una formidabile intelligenza e una ricchezza interiore che cerco di evidenziare nei miei quadri»

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