I primi 70 anni di Cerot istrione degli sferisteri

Lo stile di Aldo Cerot Marello che ha compiuto 70 anni

Giocava, cantava e incantava. E chissà se avrà mai strimpellato le note di quel celeberrimo refrain di Aznavour: “Sono un istrione”. Quasi a esorcizzare quello che lui è stato davvero, almeno nel tamburello. Ma non solo. Perché Aldo “Cerot” Marello da Revigliasco, che ha compiuto i suoi primi 70 anni - e ha già inscritto da tempo il nome nel ristretto albo delle leggende di questo sport - è stato, è, un grande “Istrione” degli sferisteri. Uno che ha dato a questo gioco da strapaese una dimensione insieme moderna e gioiosa, nel senso socializzante del termine. Ha vinto tanto, dai favolosi anni del Castell’Alfero dei primi ’70 (guarda caso i numeri, alla fine, tornano sempre) passando per Viarigi e Ovada fino alla favola casereccia di Castellero. Ma avrebbe potuto conquistare chissà quanti altri allori, se solo avesse voluto: Cerot però ha sempre preferito lo spettacolo al trofeo. Era capace, prima di una partitissima scudetto, di giocarne altre 4-5 in settimana, sfiancandosi e sfinendosi in sfide che valevano solo il gusto di una cena o di uno sfottò tra amici. Ma, così, ha attraversato (vissuto) davvero i borghi di un Monferrato (e anche del Veneto, della Lombardia, del Trentino) che non c’è più. E’ entrato nel cuore della gente con la naturalezza che è prerogativa solo dei grandi. Quando lavorava (perché bisognava pur lavorare, verso Aldo?) all’Asl, capitava più di una volta che al suo sportello si formasse una lunga coda e i suoi colleghi fossero temporaneamente «disoccupati». E spesso all’invito a spostarsi allo sportello libero, si sentissero rispondere: «Non abbiamo fretta, grazie. Aspettiamo Cerot». Lui (ovviamente fuori dal lavoro) si allenava giocando, poi magari faceva tardi la notte tra «ribote» (le pantagrueliche mangiate e bevute contadine) o i concerti della sua «Cerot band». Aveva (ha) la musica nel sangue: quel ritmo blues che aveva mutuato dalla cultura americana (compresa quella sportiva, dal football al basket) di cui è cultore e che portava sul campo con l’estro di giocate inimitabili. Tecnicamente è stato unico. Il suo talento, a Castell’Alfero, esplose con la forza di una Supernova. Mai si era vista una stella del tamburello apparire con tale fulgore. Il ragazzino magro (da lì il soprannome di “Cerot”) sbocciò nel fenomeno che poi tutti conobbero. E trovò a Castell’Alfero una famiglia più che una società, con uno straordinario patron che lo ha accompagnato come un secondo padre: Sandro Vigna, il presidente che era l’ Agnelli o il Moratti del tamburello. Non a caso, quando vinse il primo Tricolore, Cerot chiese al presidentissimo il regalo di fargli visitare gli amati States: così nacque l’idea di una estemporanea sfida oltre Oceano. Sembrava, all’epoca, un viaggio letteralmente «fuori dal mondo». Ma Cerot aveva già intuito quali fossero le strategie per promuovere lo sport moderno, anche quando si trattasse di un semplice gioco della tradizione come il tamburello. Per questo è stato un privilegio condividere, anche solo da semplici appassionati, la sua stagione: come quella di un Maradona o l’altra, più vicina e affine non solo geograficamente, del grande duello del balon tra Berruti e Bertola, disciplina che non a caso Cerot conosce a menadito. 

Artista e profeta della sua epopea, un po’ anarchico ma religiosamente ortodosso (mai una bestemmia in campo, in un tempo in cui l’intercalare dei giocatori contadini era scandito da imprecazioni che spesso chiamavano in causa i santi e la Madonna). Ha discusso e fatto discutere: era hippy e convenzionale insieme. È stata, la sua, una soave, interminabile giovinezza agonistica. Che ha lasciato in eredità, a chi ha avuto la ventura di vederlo giocare, l’impressione di una sensazionale e “insostenibile leggerezza”. Campione irripetibile, Cerot. Tenero e meraviglioso “Istrione”, che oggi guarda alla vita con il lieve disincanto della maturità. Auguri. 

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