Nella sera di un Capodanno televisivo sublimato dalle performance anche (ma non solo) atletico-artistiche del «dio della danza», il monferrino Roberto Bolle, un altro evento (sempre via video) ha richiamato l’attenzione degli appasionati di tamburello: su Rai Tre, poco prima del Tg delle 19, a «Geo and Geo», popolarissima trasmissione dedicata a scienza e natura si è parlato di questo sport in un modo inedito e singolare.
Dalle nevi di Andalo (Trentino) sono infatti comparsi alcuni giocatori ripresi mentre effettuavano alcuni (blandi e non poteva essere altrimenti) scambi di colpi sulla pista ghiacciata che costeggia gli impianti di risalita. Il commentatore ha spiegato appunto che si stava «giocando a tamburello, sport con un folto seguito in Trentino, Veneto e Piemonte, praticamente sconosciuto (testuale: ndr) nelle altre parti d’Italia». E ha poi spiegato che «il tamburello si gioca con le stesse regole del tennis, su un campo in terra battuta poco più grande del tennis (testuale: ndr) ma a squadre» .«Gesti bianchi» (per dirla con Gianni Clerici, cantore del tennis) che però qui erano bianchi solo per l’effetto candido della neve. Premesso che la lunghezza di un campo da tennis è di 23 metri virgola qualcosa (contro gli 80 regolamentari del campo da tamburello open), quindi quasi 4 volte in meno e largo poco più di 10 (quindi la metà di un impianto da tamburello largo 20 metri) e sorvolando sul fatto che si siano dimenticati di citare perlomeno la Lombardia e oltre un secolo (a essere riduttivi) di storia tamburellistica in tutta la Penisola (dall’Emilia-Romagna alla Toscana, dalla Liguria al Lazio passando per la Campania), la sensazione che emerge è la solita di sempre. La tv è lo specchio di quello che viene considerato il tamburello in Italia: poco più (poco meno) di un fatto di folclore. E lo stesso (sia chiaro) potrebbe valere per lo sport «cugino» per antonomasia del tamburello, la pallapugno). Sui social in molti non hanno fatto mancare il loro apprezzamento per l’iniziativa «nevoso-tamburellistica. E qui nessuno vuole muovere appunti a chicchessia: solo prendere atto che il tamburello (e la pallapugno per estensione) restano fortemente ancorati nell’accezione cultural-popolare ad ambiti riconducibili appena a giochi di paese o quasi. E questo nonostante la partecipazione (e l’allestimento) negli ultimi decenni a campionati internazionali, Mondiali, Europei, Coppe dei Campioni e chi più ne ha più ne metta.
Per dirla tutta: non c’entra col tamburello, ma anche di recente il presidente del Coni Malagò durante un incontro con atleti militari (molti dei quali pluri iridati e medagliati) anche di discipline non olimpiche ha ribadito che ormai conterà solo far parte di sport inseriti nel lotto dei Giochi a cinque Cerchi. Tradotto: chi è fuori dalle Olimpiadi è fuori dai flussi di fondi, denaro, sponsor che garantiscono futuro e sostanza alle rispettive pratiche sportive. Allora: quante possibilità hanno realmente le discipline sferistiche (tamburello e pallapugno) di diventare olimpiche? Ed è logico continuare a inseguire (scimmiottare) i grandi sport nazionali, piuttosto che concentrarsi sui territori «vocati» per dare risorse e visibilità in loco a tanti ragazzi (e ragazze) che portano avanti con la stessa professionalità di un Bolle (parliamo di tambass e anche di balòn ovviamente) la pratica di discipline che hanno dalla loro il fascino di una tradizione straordinaria? E che accomunano territori meravigliosi, dall’Imperiese alle Langhe e al Monferrato (per la pallapugno) risalendo col tamburello via via fino al Veneto e al Trentino, prima di scendere in Emilia e Toscana. Passando per la Lombardia, ovviamente, magari da quel Mantovano che, negli anni rombanti di Tazio Nuvolari, o poco oltre, con Marino Marzocchi «Mara», fuoriclasse venuto da Castel Goffredo, portò in dote il mito di un tamburello senza confini, nelle terre dei Gonzaga e non solo. Sport e cultura veri. Altrochè «quattro palle» sulla neve. Forse ogni tanto andrebbero ricordati (raccontati) anche nelle trasmissioni che «fanno audience». Ma questa è un’altra storia.
Marino Marzocchi «Mara»