Il mio tambass orfano delle sfide di paese

 
Alessandria news a colloquio con Aldo "Cerot" Marello, uno dei grandi protagonisti degli anni d'oro della disciplina. "Giocavamo sempre, anche 26 partite in un mese. Ora il gioco a volte è noioso"
 
OVADA - L’energia è rimasta la stessa di quando sui campi del Monferrato metteva in mostra quel mix irripetibile di fantasia e rigore tattico che gli è valso il soprannome di “re del tamburello”. Aldo Marello, per gli appassionati solo “Cerot” è così: la “sua seconda vita”, ora che sta per festeggiare 50 anni di tamburello, ha come protagonista la musica. Per questo ha messo su la Soul T Band. “I musicisti con me sono ottimi – racconta – c’è anche Alberto Parone che con la sua batteria ha collaborato con Paolo Conte. Qualcuno ha suonato con la Pfm. L’unico che non conosce la musica sono io”. E’ inevitabile però con Cerot parlare della parabola del suo sport che tra anni ’70 e ’80 richiamava migliaia di persone e ora sembra vivere in un tunnel senza uscita. “Hanno voluto fare il passo più lungo della gamba. E così è venuto meno il presupposto fondamentale, quel campanilismo da cui tutto è partito”.

Quattro scudetti in 10 anni, più due tra la FIGT, capitano della nazionale del ’78 a Montpellier, eppure il tuo primo amore è stato il calcio.
Giocavo a Asti. Ero anche bravino. Ma era scomodo da Revigliasco. A metà anni ’60 ho visto partire il boom, con il primo campionato del Monferrato: c’erano sei squadre, l’anno successivo erano già 12. Giocavamo nella piazza principale del paese. Allora le auto erano poche. E comunque chi passava aspettava che lo scambio finisse.
 
A Ovada hai fatto cinque anni, la grande gioia del ’79, altre formazioni di livello e un campionato deludente. Cosa ricordi in particolare di quegli anni?
La gente che veniva alle partite. La passione. Soprattutto il torneo di Ferragosto. Anche 5 mila biglietti staccati. Il momento più bello però era dopo. Quando incontro giocatori di rugby spiego che il terzo tempo l’abbiamo inventato noi. Accanto allo Sferisterio c’era una cantina: vini bianchi e rossi, sardine, tanti amici. Musica poi: Diego suonava il trombone, c’era Ighina che suonava la batteria. Ma io lo chiamavo Higgins, il nome del batterista di Miles Davis.

Effettivamente le libagioni sono rimaste proverbiali quasi come le imprese sportive.
L’anno dello scudetto pareggiammo ad Aldeno. Partita difficilissima, tanto vento. Quel risultato si rivelò un mezzo successo perché la nostra diretta concorrente aveva perso. Cercai un telefono: “Mamma, non vengo a casa”. Passai tre giorni a mangiare e bere con quella gente. Bellissimo.

Cosa ricordi di quel periodo dal punto di vista sportivo?
Quell’anno ci fu una grande coesione tra me, Bonanate e Capusso. Avevamo caratteri diversi ma in campo eravamo una cosa sola. La cosa più bella era giocare contro gente diversa. Se arrivavi da Bergamo o oltre per noi erano comunque tutti veneti.

Che musica ascoltavi in quel periodo?
Rock, quello degli anni ‘60-’70: Led Zeppelin, Jefferson Airplane.

Perché quel mondo a poco a poco è finito?
Negli anni ’60 tutto è partito dalle sfide di paese. Ora devi andare in Trentino, in Veneto: cose senza senso che non hanno richiamo nemmeno per gli sponsor. E poi il gioco è cambiato in un modo che se non hai due grandi squadre diventa quasi noioso. Noi avevamo palline più molli, tiravamo forte e sfruttavamo tutto il campo. Ora si gioca in meno metri. E il risultato è che a trarne vantaggio è chi aspetta l’errore dell’avversario.

In parte mi hai risposto, ma tiravate più forte voi o quelli di oggi?
Quelli di oggi si allenano molto di più senza palla. Noi eravamo sempre sul campo. In un anno facevo andare cinque paia di scarpe. 

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Soul T Band ad Ovada

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