Felice Bertola, il mito del "balùn". "Io, il Rivera dei campanili"

Ha conquistato 14 scudetti, nessuno meglio di lui Ha superato anche il suo maestro, Augusto Manzo. "Dopo aver vinto in C mi trasferii a Torino: lavoravo come mobiliere e giocavo". Oggi ha un sogno: creare una scuola per insegnare questo sport ai giovani

Ogni sport ha i suoi atleti, alcuni campioni e pochi miti. A questa realtà non sfugge la pallapugno, sport per eccellenza del basso Piemonte e della Liguria di Ponente, ricco di storia e tradizione fortemente legato alle terre contadine. Ogni generazione ha i suoi miti, ma i veri miti superano le epoche. Felice Bertola lo è stato e lo è ancora. Come lo è stato Augusto Manzo. 

Il Rivera dei campanili, lo avevano soprannominato i giornali dell'epoca, negli anni Settanta quando le sfide con Massimo Berruti infiammavano gli sferisteri e richiamavano migliaia di persone: «Allora nessuna società era in deficit, bastava - sottolinea Felice - che organizzassero una partita Berruti contro di me e la gente accorreva numerosa». Lo paragonarono a Rivera per il suo stile di gioco, per l'evidente classe di un campione che subito risultò decisamente moderno nell'ambiente di questo pallone contadino. Soprattutto se confrontato al grande Augusto Manzo che lo aveva definito il suo erede. Manzo strapotente nella struttura, poco propenso alle chiacchiere, quasi austero nel suo profilo da grande capo indiano; Bertola forte nella battuta e nel ricaccio, con un fisico armonioso, un carattere cordiale, un sorriso ammirato anche dalle tifose. Lo sguardo furbo, occhi vivi allora come oggi, di chi non ha dimenticato le sue radici contadine, e racconta la sua vita con l´emozione di un bambino, uno che non si è montato la testa perché i veri langhetti non amano le ostentazioni. E poi Manzo collezionava mangiate pantagrueliche, capace di stare a tavola per 13 ore filate; Bertola seguiva la dieta, riduceva al minimo gli inevitabili banchetti post-partita: «Mangia così batti lungo» si sentiva spesso ripetere da Manzo. Soprattutto Felice fu il primo a imporsi un programma di preparazione fisica: «All´inizio mi vergognavo per le figuracce che facevo alle prese con pesi, macchine ed esercizi a me sconosciuti - racconta oggi Felice - ma dopo tre anni di sudori e sofferenze ero diventato un altro, molto più forte e molto più sicuro delle mie capacità». E proprio come nella carriera di Rivera il successo arrivò prestissimo per Bertola, capace di vincere il suo primo scudetto a soli 19 anni, imponendosi con disinvoltura quasi sfacciata in mezzo a tanti veterani, portando con la freschezza e la vivacità del suo personaggio una ventata davvero nuova nell´ambiente: «Mi ricordo che dopo aver vinto il campionato di C per Monesiglio nella bella a Torino, il direttore dello sferisterio di via Napione, il sig. Trombetta mi volle a tutti i costi. Convinse mio padre e mi trasferii a Torino in una pensione di via Garibaldi a 1000 lire al giorno. Lavoravo come mobiliere dal figlio di Trombetta e giocavo. Allora c´era una partita al giorno e inizialmente sostituivo i giocatori mancanti, per lo più facevo il terzino. Gli spettatori non erano molti, ma tutti scommettevano. Alla fine della partita mi davano la "mancia": mi usciva un bello stipendio. A Torino ho maturato la convinzione che il pallone elastico fosse il mio lavoro». 

Il suo non voler strafare, la capacità contadina di stare al proprio posto gli è stata molto utile: «A 17 decisero - prosegue Bertola - che ero pronto per la serie A: spalla a Balestra. Ruolo che non mi apparteneva: non vedevo il pallone. Feci poche partite e poi mi fecero giocare in serie C. Ma non mi persi d´animo, mi divertivo. Feci un campionato dignitoso, vinto l´anno seguente e poi nel 1963 trasferimento a Cuneo con Defilippi che nessuno voleva perché si classificò ultimo l´anno precedente. Vincemmo a sorpresa lo scudetto. Era il 6 novembre. Un rimpianto. Non volli che mio padre, sofferente di cuore, venisse a vedere la partita avevamo paura che le troppe emozioni gli potessero far male. Morì l´anno dopo senza mai vedermi vincere uno scudetto». Dopo questo altri 13, è il giocatore che più ha vinto. Con lui cominciarono a crescere le attenzioni della stampa e i guadagni dei giocatori (almeno quelli dei capitani), legati a rispettabili ingaggi e non solo alle generose "mance" collegate all´attività degli scommettitori. Inevitabilmente a Felice Bertola toccò anche il ruolo di ambasciatore del proprio sport quando, nell´agosto del 1968, fu organizzata una trasferta all´estero, la prima nella piccola storia del pallapugno: viaggio in Francia per due "quadrette", guidate da Bertola e Defilippi, protagoniste di un incontro di esibizione ad Amiens, in Piccardia, dove vennero avviati i primi contatti per un´attività internazionale che in questi giorni - giusto 40 anni dopo - può vantarsi di schierare una ventina di Paesi concorrenti ai Mondiali in Ecuador. Quel viaggio (in aereo, particolare non da poco) valeva quasi quanto un´avventura in astronave per quelli del "balùn", ospitati proprio dai cugini francesi pronti a regalare con uno storico avvicinamento al gioco della pallacorda un aristocratico legame al pallone contadino della Langa.

Molti anni sono passati da quando a Gottasecca uno spensierato bambino giocava a pallone in ogni angolo del paese e alla domenica faceva il raccattapalle sognando Manzo. Oggi Felice Bertola è un distinto signore che porta assai bene i suoi 64 anni*, frequenta assiduamente il suo irrinunciabile mondo del pallone elastico: allena, consiglia, partecipa con la federazione a tante iniziative. «Mi è rimasto un sogno - confessa Felice - far nascere una scuola per insegnare ai giovani questa disciplina. Mi auguro che le istituzioni possano finanziare tale progetto, a mio avviso indispensabile per lo sviluppo e la crescita di questo sport che è rimasto vero, che ha bisogno di giocatori con un fisico naturale, impostato. Mi fa male vedere gli sferisteri che si svuotano». Ogni tanto torna pure a giocare romantiche partite fra «vecchie glorie» e sfoggia ancora le sue eleganti movenze, quello stile di gioco armonioso che aveva fatto un giorno rispolverare a Giovanni Arpino, in un suo scritto, un giudizio di Goethe: «Appaiono durante il gioco del pallone atteggiamenti tanto belli da meritare di essere fermati nel marmo».

* Intervista del 19 novembre 2008

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