Salviamo il Maracanà della pallapugno

DALLA PRIMA PAGINA DELLA STAMPA L'ACCORATO APPELLO DI CARLIN PETRINI

Lo sferisterio Mermet di Alba è un pezzo di cultura piemontese. La tradizione può diventare un volano per rilanciare il futuro

Ieri e oggi. Nella foto una partita della Pallonistica Albese che ha vinto l’ultimo campionato al Mermet e sotto il cancello chiuso con i lucchetti Mermet. Ai più questa parola non dice nulla, ma è un piccolo esempio per un ragionamento più ampio: come vogliamo disegnare i nostri centri storici e che ruolo vogliamo dare alle tradizioni e alla cultura popolare. Il Mermet è uno dei più antichi impianti sportivi ancora funzionanti in Italia: è lo sferisterio di Alba. Porta il nome di Alessandro Mermet, assessore e facoltoso cittadino albese che nel 1854, quando il gioco del pallone fu «espulso» dalla piazza del Duomo, decise di costruirlo su un terreno di sua proprietà e di concedere, attraverso un accordo di concessione al Comune, il suo utilizzo pubblico e gratuito.
Il gioco del pallone (prima al bracciale, poi evolutosi con l’arrivo della gomma) si può dire che allora rappresentava uno degli sport più popolari in Italia, praticato in piazze e sferisteri dalle Marche, (basti ricordare quello bellissimo di Macerata), al Lazio, con Roma (Barberini), passando per Firenze (Le cascine) Genova (Lido) Bologna (Montagnola) e, naturalmente, per tutte le principali città del Nord Italia. Un gioco che l’arrivo e lo sviluppo degli sport olimpici hanno radicalmente ridimensionato ma non cancellato. Oggi, si chiama pallapugno (ed è riconosciuto dal Coni) si gioca ancora in buona parte del Sud Piemonte e della Liguria di ponente, e lo sferisterio Mermet di Alba rappresenta il simbolo di una tradizione che ha ancora la forza di appassionare molte persone e di attrarre, grazie allo sforzo di volontari e sostenitori, molti giovani che si avvicinano alla sua pratica.

E però la storia del Mermet di Alba è una storia complicata, che da sempre intreccia interessi privati e pubblici, necessità economiche e spinte popolari. Già, perché questo impianto è sempre rimasto in mani private e ha sempre mantenuto la funzione pubblica grazie al vecchio accordo del 1854, e le tensioni hanno da sempre accompagnato la sua storia, in ogni epoca. Ciclicamente si sono avvicendati progetti di costruzione e di riqualificazione dell’area su cui sorge (in pieno centro storico), e altrettanto ciclicamente comitati e movimenti di cittadini hanno lottato per mantenerne struttura e funzione, perché chiunque sia nato come me in questo angolo di Piemonte sa che il Mermet è a tutti gli effetti un simbolo della città di Alba, al pari delle sue ben più note torri. Luogo fenogliano per eccellenza, citato nella Paga del sabato. L’ultima di queste tensioni è in corso in questi mesi, intorno al nuovo piano regolatore da poco approvato che consentirebbe ai proprietari un intervento di ristrutturazione che snaturerebbe non poco l’impianto originario e che dunque sta incontrando la resistenza degli appassionati e degli affezionati del gioco e del suo tempio (che lo scrittore Giovanni Arpino definiva «il Maracanà delle Langhe»).

Al di là delle vicende puntuali e locali, tuttavia, credo sia importante partire da questo caso per interrogarsi sul ruolo che storia e tradizione hanno e possono giocare nel disegnare il futuro delle nostre città. E’ una questione politica, soprattutto quando da più parti si sente dire in continuazione che il turismo deve essere il settore trainante per gli anni a venire, che l’Italia tutta deve essere capace di valorizzare le proprie bellezze. La domanda è: di che cosa sono fatte queste bellezze? Possiamo pensare che si tratti solo di costruzioni, di monumenti, di paesaggi? Certamente questi hanno un ruolo preponderante, ma non possiamo non fare un passo in più e chiederci da quale contesto culturale questi siano sorti, si siano modificati e siano diventati ciò che sono oggi. Se non ci rendiamo conto che ciò che ha plasmato il nostro Paese è innanzitutto la sua cultura immateriale (e in questo lo sport tradizionale, la musica popolare, la ritualità contadina, il savoir faire artigiano hanno giocato un ruolo di primissimo piano), rischiamo di progettare un futuro un po’ artificiale e asettico, a misura di visitatori mordi e fuggi e di una visione commerciale che non può che avere un respiro troppo corto.

Ecco allora che c’è bisogno della politica. Gli amministratori a tutti i livelli si trovano oggi a dover rispondere a questa esigenza di progettualità forte, devono dare risposte in questo senso. Non è questione da poco e non è compito facile, specie in un momento in cui le risorse sono poche e la coperta è sempre più corta. Qui però la dimensione finanziaria c’entra solo in parte perché, lo voglio ribadire, siamo di fronte a una questione che attiene al futuro che immaginiamo per i luoghi che abitiamo.

Ecco allora che salvare il Mermet (che certamente ha bisogno di essere ammodernato ma non stravolto) significa salvare un pezzo di storia e cultura piemontese, significa rilanciare un movimento sportivo, significa pensare che si può far convivere tradizione e modernità e che anzi la storia può a tutti gli effetti diventare un volano per rilanciare un futuro bello e promettente per una comunità. E quanti Mermet ci sono che vivono la stessa situazione in altre zone del nostro Paese? Non possiamo permetterci di perderli, dovunque essi siano.

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