Quando il tambass era la leggenda di Bonasso

Sul finire degli anni sessanta il tambass fu uno straordinario fenomeno, prima ancora che sportivo, sociale

L’avevano sempre giocato; la domenica pomeriggio, mentre le donne andavano al Vespro, tiravano fuori i Campadelli e i Giacopuzzi d'annata e nella piazza del paese cominciava ad echeggiare il bat ed arcasa.

Prima era un gioco di forza; sugli scudi, i bat’or, coloro che sapevano rimandare con ampio gesto, la palla; più lunga volava, meglio era.
Allora le finezze che poi sono venute di moda, con palle radenti, gioco di sottomano, bruciate brevi a filo di terreno ed altra mercanzia del genere, erano faccende completamente ignote e se qualcuno le avesse azzardate, sarebbe stato mandato a scopare il mare. Il gioco del tamburello era gioco maschio contadino; un gioco che imponeva la fierezza del gesto, la dignità dell'uomo che non doveva saltare come una ballerina del can-can o peggio ancora ma stare, nell’attesa della ribattuta, ben piantato a terra con gambe divaricate e mani ai fianchi, lobbia leggermente alzata sulle ventitré con pendenza sulle spalle, ma sempre lobbia in testa; e la battuta, e la ricacciata, erano gesto largo e potente; un gesto imperioso, quasi mistico come quello del seminatore.

Era la battuta così detta di spalla o di fianco, una battuta che consentiva rimandi potenti, lunghe parabole che spesso si concludevano con l'intra.
L'intra era una particolare regola secondo la quale la palla che, in primo volo, avesse superato la linea di fondo campo avversario, o veniva ribattuta od era punto per chi l’avversario. Regola maschia, che consentiva a giocatori e pubblico tempo e spazio per seguire il gioco; l'occhio compiva una parabola tranquilla, vedeva partire la battuta, seguiva la traiettoria della palla che si alzava e si arcuava mentre sul fondo della piazza, non disturbata dal traffico inesistente, si piazzava l'avversario pronto a tentare la ricacciata. Ogni tanto spuntava un gatto od un cane, ed erano guai, soprattutto pere cani e gatti; perché l'intra era una ' cosa seria; non c'erano cani o altre cose che tenessero o potessero giustificare un errore: se la palla non tornava indietro, era punto. Il battitore era il re del tamburello; gli altri, la spalla ed i terzini erano per lo più coreografici, per le evenienze straordinarie. Non era raro il caso di partite terminate senza che

terzini e spalle avessero battuto palla.


Ai bordi del campo c'era l'arbitro; ma, fra l'arbitro ed il bordo del campo c'era un tavolo con tutto l'indispensabile per seguire la partita: bicchieri, pintone di vino, tirabursun, pane e mezza toma dì gorgonzola.Mentre la palla volava i giocatori a turno vi si avvicinavano per buttare giù un boccone ed un bicchiere di vino.
Le grandi disfide erano per il giorno della festa; cioè per le feste patronali.
Nascevano incontri fra paese e paese che accentravano attenzione e preparazione per mesi e mesi con strascico di discussione per altri mesi. Si formavano così, accentuate dai ricordi man mano che il tempo passava senza più possibilità di verifica sul campo, le leggende dei grandi bat’or, delle partite interminabili disputate praticamente testa a testa, di colpi incredibilmente potenti,
Ed il tambass, le cui regole restavano empiricamente legate alla matrice
d’origine, cioè il pallone elastico, rimaneva fatto prettamente locale, un fatto ed un costume da tradizione orale, cioè cultura di popolo, più che da storia
dello sport.
Non esisteva in pratica età della pensione. I giocatori più validi rimanevano sulla breccia fino ad età canonica ed erano più le mogli e le nuore che non gli acciacchi dell'età a tirarli fuori dal campo. Del resto per resistere bastava poco: colpo d'occhio, braccio potente e fermezza delle gambe.
Fiato, agilità, riflessi veloci e via discorrendo erano fattori completamente inutili; non facevano parte del gioco.

Fra i leggendari re della battuta, sì ricordava Giovanni Conrotto di Cocconato, campione di esportazione, il Binda del tambass.
Binda nel senso che, come successe al grande ciclista di Cittiglio escluso da un Giro d'Italia per manifesta superiorità, c'erano gare che venivano reclamizzate con la scritta, apposta in neretto sulla locandina: gara aperta a tutti i risultati; non gioca Conrotto. Conrotto vinse tre campio¬nati tricolori e si ricorda di una partita, disputata a Bergamo, nel corso della quale realizzò ben undici in¬tra consecutivi; undici pun¬ti senza che nessun altro giocatore toccasse palla. Però Conrotto fu un caso; divenne d'esportazione ed ì suoi tricolori li disputò e li vinse giocando per la tamburellistica Milano.

Si giocava dappertutto; cioè ovunque ci fosse spazio sufficiente.
A Casale si cominciò all'inizio del secolo. Nel fossato di Barbanot si giocava al "pallone” (cioè il pallone elastico); in piazza Castello, il tambass.
I due bat’or contrapposti si piazzavano l’uno a ridosso del Municipale, l’altro sotto ai balconi del palazzo degli invalidi di guerra , dalla parte opposta della piazza. Tra un tentativo d’intra e nell’attesa della ricacciata, l’Ettore Furione- che, come attività secondaria al tambass, faceva il calzolaio- si sistemava il Campadelli stretto fra le gambe ed arrotolava , nell’apposita cartina, il tabacco per farne una sigaretta (che avrebbe acceso, dopo la successiva ribattuta, sfregandosi il brichet sul di dietro dei pantaloni di fustagno).
Le squadre erano organizzate bric e brac, e non affiliate ufficialmente a qualche federazione.


Ci fu però una polisportiva- più che altro un dopolavoro con ragione sociale il gioco delle bocce- che cercò di raggruppare gli appassionati in una società regolarmente riconosciuta dagli organismi competenti; e fu la Virtus (che aveva sede , locali e chiosco delle angurie e granatine sul Lungo Po Morozzo di San Michele).
Ma non creò proseliti; a Casale il tambass rimase gioco fine a se stesso anche dopo che la Virus- nel 1955- vinse il campionato nazionale di serie C.
Nonostante il lungo curriculum ( nel tempo la Virtus divenne Eternit, vedi ing. Ronca; “Tao Te”, vedi ”Vichingo” Oddone ; ritornò Virtus e poi si stabilizzò in Maurizio Mossano; nel frattempo il campo- sferisterio- si era spostato verso Piazza d’Armi , dove ora c’è un parcheggio e la stazione delle corriere) Casale non ebbe mai allori tricolori nella massima categoria.


Nei paesi si giocava essenzialmente nelle piazze arginate da lunghi ed alti muraglioni. Valeva, come nel gioco del bigliardo, il gioco di sponda, anche in battuta. Un gioco che favoriva i padroni dì casa, conoscitori profondi di curve, mattoni sporgenti, inerii traditori.
In qualche caso, come a Moncalvo, si giocava nel vecchio fossato del castello (dove c'era anche il campo da foot-ball) con i torrioni più avanzati
E fu proprio a Moncalvo che nacque il casus belli che determinò una svolta fondamentale nell'adeguamento del tambass monferrino alle regole nazionali. Ma qui siamo già in pieno torneo del Monferrato.
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Il torneo del Monferrato nacque a metà degli anni ’60 quasi per caso.
Allora, anche nei paesi, il gioco dominante era il fulbal ed il tamburello giaceva pressoché dimenticato.
La squadra calcistica di Murisengo, guidata dal dottor Oscar Bonasso, fu invitata a Parigi per un torneo giovanile.
E lì Bonasso riscoprì il tambass.
Bonasso, più che un medico dentista, era un vulcano eternamente in eruzione.
“Con il fulbal- si disse e disse poi agli amici che rapidamente convocò al ritorno a Murisengo,- noi dei paesi al massimo possiamo aspirare ad una terza o seconda categoria che costano l’iradidio, non ci danno lustro e nemmeno soddisfazioni...”:
“...Giusto?”

“Giusto!” stabilì senza attendere risposta.
“Con il tamburello, invece, che ho riscoperto a Parigi, invece possiamo essere leader, primattori...”.
“Giusto?...”
“Giusto!” si rispose mentre gli altri, attoniti, cercavano vanamente di capire dove con quel discorso sarebbe andato a parare il Dottore.
“Qui nelle nostre colline si è sempre giocato al tamburello e basta dare un fischio per rispolverare una passione accantonata ma mai sopita, risvegliare interesse fra la gente e dare stimoli ai giovani...”
“Giusto?...Giusto!”:
“...Perciò noi tutti stabiliamo di organizzare un torneo, che denomineremo del Monferrato, di tamburello libero...libero nel senso che può giocare chi vuole su campi che come sono sono...cioè le piazze dei paesi...”.
“L’apposita commissione- cioè lui- ha già stabilito il regolamento da inviare, con l’invito che ha (cioè lui) già stilato ed è solo da imbustare, ai paesi della zona...”
Bonasso bloccò un attimo la lingua per bere un sorso d’acqua e gettò una rapida occhiata sull’uditorio che, pur avendo udito, non aveva capito nulla e non aveva proferito verbo. “Dobbiamo fare le cose con ordine e regolarità, perciò stendiamo il verbale della riunione...Ernestin , tu che sei il più giovane (l’Ernestin, quella sera, era presente casualmente al bar perché aveva voluto offrire da bere al nipote in partenza per la naja) stendi il verbale... Dopo ampia e articolata discussione... no..., forse è meglio scrivere: dopo ampio, articolato e partecipato dibattito, i convenuti...no,... l’assemblea appositamente convocata...ha deciso,... cancella deciso e scrivi: stabilito...,anzi: ha deliberato- deliberare è meno autoritario, dà più l’idea della discussione partecipata che abbiamo avuto...-, ha deliberato all’unanimità...no , verbalizza...: con un astenuto...suona meglio...”.
“Chi metto come astenuto...dutur?”- chiese l’Ernestin che seguiva trafelato.
“Metti il Pedrot che, là in fondo, è tutta la sera che ronfa e sembra di essere in una segheria...”.
Così il torneo del Monferrato di tamburello, deciso, anzi deliberato, quella sera a Murisengo con la sola astensione del Pedrot, partì...ed ebbe subito un incredibile, strabiliante successo.
Bonasso non avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura, che quel boom era andato al di là delle sue più rosee attese, ma assunse dimensioni che razionalmente, anche con l’agile speme che precorre gli eventi e fa sognare, non poteva essere in nessun modo previsto.
Fu un fenomeno sportivo e nel contempo sociale.
Erano gli anni, brevi come un sospiro ma nessuno lo sapeva, del boom economico; la cinquecento e la seicento - favorite nella loro diffusione dagli onerosissimi balzelli doganali che triplicavano i costi delle automobili importate- stavano annullando le distanze.
Chi se ne era andato-generalmente con destinazione Mirafiori, sognando nel cuore che “... un giorno, tornerà dovizioso...” (ma in realtà non sarebbe mai più tornato per stabilirvisi)- colse l’occasione del tambass per rivedere la domenica il suo paese, riaprire la casa abbandonata da anni e che col tempo avrebbe reso riabitabile, almeno per le vacanze..
Nei giorni di festa , i prati della collina e delle valli pullulavano di pranzi al sacco dislocati nei paraggi del bat e arcasa del cuore.
Il tifo salì alle stelle.
Le squadre e gli sferisteri presero a moltiplicarsi; non c’era paese che non avesse allestito un quintetto ; Cerrina ne ebbe due: paese e valle.
Il ritmo della vita familiare si dovette adeguare a quello del torneo; e capitava non di rado che qualche dirigente, partito con destinazione acquisto vitello, se ne tornasse -anziché con un animale da macello o da latte- con un giocatore; che non muggiva, non faceva latte, non dava carne, ma poteva far vincere la squadra del cuore.

Ongaro a Moncalvo, Mara a Codana, poi tanti altri il cui nome ora mi sfugge.
Vinse il Cerrina, vinse, più volte, il Castell’Alfero, poi prese l’abbrivio, con la presidenza ed i quattrini di Pericle Lavazza re del caffè, il Murisengo che si aggiudicò due scudetti avendo ingaggiato- a suon di palanche- campioni come Malpetti che proveniva dal Bussolengo (Verona) e che a Murisengo poi si stabilirà definitivamente.

Era già l’epoca del campionato nazionale ( con campi delimitati da righe, come quelli di calcio) . Tutta l’organizzazione gravitava su Bonasso; nei momenti di tensione, il dutur tirava fuori dalle tasche un documento che metteva d’accordo capre e cavoli (come quell’imponente massa di scartoffie, potesse trovar posto nelle tasche della sua giacca, è uno dei misteri irrisolti della mia vita).

Alle origini i campi erano liberi, cioè come tu mi vuoi.
Il casus belli che li fece regolarizzare fu, più che l’insistenza della Federazione nazionale, l’episodio di Moncalvo –Codana.
Il Moncalvo teneva campo nel fossato del castello e quel giorno, la partita era risolutiva per il Codana, una palla ricacciata dai padroni di casa, incocciò un torrione e si incastro in un merlo dell’antico maniero.
Mara, capitano del Codana, e già leader gruppo sportivo Fiat, che al patron Rosmino costava lacrime e sangue, attese per quasi un minuto la caduta della palla; poi rinunciò. Ma, prima che l’arbitro assegnasse il punto, un colpo di becco di un colombo face precipitare la palla e l’arbitro assegnò il punto al Moncalvo che raggiunse il quindici della vittoria.
Il reclamo di Rosmino, assistito dall’avvocato Bori di Casale, fu respinto.
“Palla che cade dal merlo- sentenziò Bonasso- palla valida...”.
“Ma non è scritto da nessuna parte sul regolamento..” urlò infuriato Rosmino.
“Lo scriviamo subito...” replicò Bonasso mentre Rosmino batteva la testa contro il muro. Poi, come è inevitabile, la parabola raggiunse l’apogeo e la fase discendente –- favorita dai costi diventati ormai insostenibili- fu molto rapida .
Il tamburello non fu più quello –miracoloso- degli anni fine sessanta.
Era cambiati i presupposti, mutate le condizioni sociali che con un relativo benessere stimolavano altre prospettive. Erano cambiate anche le generazioni....C’era una volta, poi non c’è più...senza che ce se ne accorga...
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Però il tambass, a livello sportivo anche se non genera più quegli entusiasmi, è rimasto; e le nostre squadre primeggiano a livello nazionale.
Io, che di quel tamburello fui cronista (e qualcuno come l’indimenticabile corrispondente della “rosea” Luciano Debernardi- sospese il viaggio di nozze per coprire, da Marassi, un Genoa –Casale; e la moglie glielo rinfacciò per tutta la vita, o Giglio Panza direttore di Tuttosport che pubblicava quei miei “ pezzi” di colore sulla terza pagina dell’edizione domenicale, mi definì addirittura “cantore”) ringrazio di cuore il Callianetto –a quei tempi non aveva vinto nulla e non mi ricordo nemmeno se ci fosse a quel livello-, che ha inanellato, uno dietro all’altro, una decina scudetti tricolori battendo i tradizionali e storici rivali del Veneto, per avermi dato il destro a questo ricordo.
...Ah, se ci fosse ancora Bonasso, il mitico e grande Oscar Bonasso da Murisengo...

 

Una foto simbolo dei primi anni del torneo del Monferrato: nell'autunno del '65 a casa di Pinot Ferrero si svolge la riunione per stabilire le regole del campionato '66. 

Si riconoscono da sinistra Quilico, Malpetti, Ferrero, l'arbitro Faganelli, Oscar Bonasso e il signor Nebbia. Di spalle Enzo Coppo (autore di Tamburello anni 10).

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