Felice Bertola, vita di un campione

Dall'infanzia a Gottasecca alle mitiche sfide con Berruti, due toreri letterari degni di Hemingway

È cresciuto fra questi casolari tra la nebbia, il profumo del bosco e il canto il gallo. In Gottasecca sua madre Secondina gestiva la trattoria e il negozio «Tripoli», residuo della campagna di Libia di qualche antenato. Per la gente del posto quell'osteria era l'unico svago, un carpione e una partita a carte e poi la notte avvolgeva tutti nella sua sacca stellata. Il padre, Bertola Giacomo, era un ottimo battitore di pallone, giocava nei paesi delle Langhe; in quei tempi si giocava come si poteva, ma si giocava, poi si lavorava molto e si faticava anche quando il tempo non lo permetteva. Felice Bertola ha un grande rammarico: non aver potuto vedere suo padre allo sferisterio quando ha alzato la coppa del campione. Non ha avuto la possibilità di vederlo vincere, la malattia non lo gliel'ha permesso. 
Felice è nato nel '44, nei tempi dei tedeschi, non a Gottasecca ma in una frazione vicina, «Villaro»: Gottasecca era stata bruciata e portata via. Ha iniziato a battere il pallone a cinque anni, «allora si conosceva soltanto la pallapugno, altri sport non si sapeva cosa fossero». «La pantalera era la nostra vita, il nostro divertimento, la nostra passione - ricorda -. Passavamo tutto il nostro tempo tra una giocata e l'altra, tra la lezione della maestra e una partita». I primi tornei della festa furono il primo «passo lungo», grazie al fratello che giocava da terzino: lì notarono Felice per la potenza che aveva a battere il pallone. Riaffiorano ricordi: «Ero uno che batteva dove gli altri non arrivavano mai, battevo sempre tre metri più degli altri. Avevo il mio segreto, ma non l'ho mai rivelato a nessuno. Ero nei campi a lavorare quando un giorno mi chiamarono ad alta voce per comunicarmi che c'era un signore che mi cercava, era uno esperto della pallonistica, un signore che diceva di scrivere per un giornale». Era venuto a piedi da Monesiglio portandogli in regalo due palloni e un sorriso. «Fu l'incontro che mi aprì la porta dei campionati, la mia vita incominciava a scorrere fra gli sferisteri, tra le urla di giubilo e le scommesse».
Ogni volta l'arena si riempiva festante, erano oltre cinquemila i sostenitori, la sua squadra macinava vittorie su vittorie, non si contavano i nasi in su ogni volta che il pallone volava tra le nuvole. «Torino era la mia casa; lavoro, bicicletta e sferisterio, ogni giorno una partita e a ogni partita una vittoria». Berruti-Bertola uguali ma differenti: uno dipingeva e studiava, l'altro lavorava i campi, due toreri letterari che nessun Hemingway ha mai raccontato. Bertola e Berruti erano due farfalle che giocavano sempre tra il dieci e il nove, la gioia delle scommesse. «Galeotto fu un allenamento a Cengio a farmi conoscere mia moglie Lina; non fu il pallone che correva tra una sponda e l'altra ma le orme dei cinghiali che lei cercava a farci maritare». Questo gli raccontò quando l'avvicinò incuriosito dalla sua bellezza. «Ho calcato i palcoscenici di tantissimi sferisteri, ho conosciuto persone splendide, la mia vita l'ho passata a correre contro un pallone. Ogni vita va vissuta per qualche cosa che ne valga la pena, la mia posso dire di averla vissuta nel più bello dei modi». 
Gottasecca è il paese da dove è partito che non ha mai dimenticato, ci torna sempre. A Gottasecca si fanno ancora oggi molte partite al pallone con centinaia di persone a seguire le squadre, qui il gioco regala ancora felicità e spensieratezza. «Chissà che questo paese dove ho iniziato a giocare non regali qualche altra sorpresa - dice Bertola -. Ci sono ancora dei piccoli Bertola che promettono bene, piccoli campioni che aspettano che arrivi qualcuno con due palloni in mano a incoraggiare la genialità». Il «balun» in fondo è un gioco ma può regalare dei sogni che volano e vanno oltre i novanta metri. 

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