Lo spettacolo perduto nelle sfide d’agosto all’ombra dei bastioni

Spiace dirlo, ma il tamburello a muro è - tecnicamente - all' annozero, o quasi.

La cartina di tornasole del movimento, ancora una volta, è stato il quadrangolare di Portacomaro, conclusosi martedì. Un torneo, una volta, vetrina dei campioni e specchio di una disciplina che sapeva offrire l'essenza di questo sport nella varietà e imprevedibilità delle sfide sotto i bastioni.

Un assunto che da un po' di tempo a questa parte non trova più rispondenza nella realtà del gioco. E anche in quest'ultima edizione del quadrangolare, indipendentemente dai risultati, lo spettacolo è stato di basso - verrebbe da dire infimo - livello. Si gioca su un campo lungo (forse sarebbe meglio dire «corto», per gli standard antichi di questa disciplina) un'ottantina di metri, contro i 100 di una volta, con palline di caucciù che - se non fosse per il colore avorio - ricordano molto da vicino quelle nere, velocissime, dell'epopea del mitico Castell'Alfero di Cerot-Uva-Riva-Pentore-Casalone. Ma allora il terreno di gioco (dimensione standard a «libero») misurava appunto 100 metri e la Federazione, all' epoca, intervenne per «appesantire» e «ingrandire» le palline in modo da togliere di fatto al Castell'Alfero quello strapotere che ne fece una squadra da leggenda. La lunghezza dei campi venne poi definitivamente ridotta agli attuali 80 metri. Altro piccolo dettaglio: all'epoca si giocava con tamburelli in pelle d'asino o di cavallo, la cui capacità elastica era di gran lunga inferiore a quella degli attuali attrezzi in plastica. Eppure forza e tecnica erano gli ingredienti base dello show.

Ora sono sparite quasi del tutto anche le grandi rivalità: non esistono più il pathos, la tensione dell'evento, la capacità di coinvolgimento degli spettatori. Domenica, per esempio, nella seconda semifinale del quadrangolare, c'erano poche decine di paganti a Portacomaro e mai come questa volta si può dire che gli assenti hanno avuto ragione. Manca l'accento della potenza - e questa non è certo una novità - e latitano anche le tanto sbandierate capacità di recupero. Eppure, sul campo portacomarese, erano della partita anche numerosi giocatori della serie A open.

Lo stesso torneo a muro si è ridotto ad una sorta di «enclave», lacerata da discussioni infinite sui punteggi dei giocatori e altri cavilli da «azzeccagarbugli» in cui conta soltanto la coltivazione del proprio «particulare». Non è un caso, se alla fine, quest'anno, si siano affrontate per il titolo le due formazioni con il maggior tasso di giovani talenti faticosamente espressi dal movimento, negli ultimi anni: Grazzano e Moncalvo. Ma sono la classica eccezione in un panorama di desolante pochezza. Si parla di scudetto, a lasciare intendere un’estensione anche nazionale della manifestazione, in realtà ridotta ad uno spicchio di Monferrato con l’«anomalia» Faenza, peraltro osteggiata da molti.

Il discorso sulla crisi, ad essere onesti, andrebbe esteso all'intera disciplina, fatta salva una premessa: non «scarichiamo»le responsabilità (solo) sui vertici federali. Il presidente Fipt Emilio Crosato e quello astigiano Mimmo Basso, tanto per fare due nomi eccellenti, anzi, hanno svolto in questi anni uno straordinario lavoro di «reclutamento» e promozione della disciplina, ridandole quella «dignità» di sport che sembrava compromessa alla fine degli Anni '90. Questo sul piano organizzativo.

Ma la realtà del campo è che solo il super Callianetto ha saputo davvero incarnare quello spirito di rinnovamento richiesto da un «cimento» chiamato a fare un grande, definitivo salto di qualità, per restare competitivo.

Bisognerà una volta per tutte avere anche il coraggio di dirlo: questo gioco non diverte più, perchè ogni sfida è diventata troppo prevedibile, spesso con tempi allungati a dismisura: e gran parte dei suoi protagonisti non hanno probabilmente neppure l'idea di che cosa significhi affrontare una vera preparazione, mirata ad accrescere la potenza, la resistenza, la precisione e la profondità dei colpi e la qualità delle giocate, per portare in campo quello spettacolo che una volta era dono di natura di tanti tamburellisti di campagna e che oggi non si vede più.

E' come se nel tennis, sport «cugino» per antonomasia, il gioco si fosse fermato all'epoca del Laver o dei Rosewall o dei Pietrangeli o dei Gardini. Ma adesso ci sono i Federer e i Nadal, i Djokovic e i Murray, capaci di tenere avvinti alle poltrone, milioni di (tele)spettatoricon le loro incredibili performancetecnico-tattiche-atletiche.

Chi ha visto i Cerot (non quello di domenica, ultrassesantenne, a Portacomaro, ma quello che danzava sulla polvere degli sferisteri sfoggiando un talento inimitabile), i Capusso, i Montresor, i Mara, i Tore Biasi, i Pagani, i Malpetti, i Tommasi, i Bonanate, o chi vuole ancora gustarsi le giocate dei Petroselli, dei Dellavalle, dei Beltrami, dei Cavagna, dei Valle, dei Pierron, non può accontentarsi di «quello che passa il convento» (cioè una decina al massimo di giocatori ad alto livello). Così come non può tollerare che l'agosto astigiano, con i paesi stracolmi, resti desolatamente vuoto di sfide, perchè tanti giocatori «devono farsi le vacanze».

Non è questo il tamburello che immaginavamo.Fors eè meglio lasciarsi cullare dai ricordi.
"POCHI VERI CAMPIONI Il gioco mediocre allontana gli appassionati dagli sferisteri monferrini"

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